what 2020 has taught us about the fashion industry so far

Cosa il 2020 ci ha insegnato sul settore della moda fino ad ora

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Possiamo dire che certamente il 2020 è iniziato come, e continua ad essere, un anno particolare. Con le sue due cifre ripetute e l’inizio di una nuova decade, era un anno che prospettava fiducia, nuovi inizi, nuovi progetti. Tutto avremmo immaginato, tranne quello che è accaduto. C’è infatti chi vorrebbe fosse già passato e porterebbe le lancette dell’orologlio al 31 dicembre per vedere nascere un nuovo anno con la speranza che sia migliore. 

Ma, la verità è che non si può andare avanti, facendo finta che quello che è successo in questi mesi non sia mai accaduto e sperare di tornare a quello che era fino al primo mese di questo anno. 

Una pandemia globale, nuovi modi di lavorative, negozi chiusi, posti di lavoro persi,  distanziamento sociale, nuovi episodi tragici e devastanti di razzismo, proteste…

Se il 2020 fosse stato un anno come un altro, seppure marcando l’inizio di una nuova decade, probabilmente i cambiamenti nel sistema necessari, sarebbero passati alla leggera come  è successo fino ad ora. 

Sicuramente tutti avremmo voluto e preferito che ci fosse stata una pandemia senza perdite umane e che gli scontri delle proteste razziste non fossero avvenute a seguito di altre vite innocenti spezzate. 

Perciò il minimo, è fare in modo che queste vite perse non lascino solo un immenso vuoto, ma dei cambiamenti concreti.  

Il 2020 ha messo in risalto problemi di cui già si era a conoscenza, ma che fino ad ora, non erano stati affrontati con serietà. Che la moda debba essere più sostenibile ed inclusiva non è certo una novità e neanche la prima volta che se ne parla. Eppure si è dovuti arrivare ad una pandemia globale e a perdite di vite umane per arrivare a considerare questi problemi radicati da anni, seriamente.  

Tutti i sistemi ed i vecchi schemi devono cambiare. A partire dall’industria della moda, fino alle azioni del consumatore finale. 

Basta a multiple collezioni l’anno e capi che si indossano solo una volta, basta a sprechi, basta guardare solo ai profitti o ad avere un guardaroba smisurato senza pensare alle conseguenze che tutto questo comporta sull’ambiente. 

Secondo Fashion Revolution, il business della moda globale nel 2015 produceva 150 miliardi di capi di abbigliamento ogni anno, molto più delle esigenze di una popolazione globale di 7,9 miliardi. Nel 2017, il consumo di abbigliamento a livello globale era previsto in ulteriore aumento, del 63% entro il 2030, secondo Global Fashion Agenda e Boston Consulting Group.

L’industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni annue globali di carbonio, più di tutti i voli internazionali e la navigazione marittima combinati, secondo United Nations Environment Programme.

L’attuale modello di fast fashion – un rapido ricambio delle collezioni per stimolare l’interesse dei consumatori – sta aggravando il costo ambientale, poiché la persona media acquista ora il 60% in più di abbigliamento rispetto al 2000. Ma il fast fashion, oltre ad aver aumentato notevolmente i volumi della moda, ha fatto salire a galla un altro problema fondamentale di questo settore: la maggior parte di chi lavora in fabbrica viene pagato molto al di sotto del salario plausibile.  A tal proposito, suggerisco di leggere Fashionopolis: the price of fast fashion and the future of clothes o di ascoltare l’episodio del podcast che ho fatto con l’autrice Dana Thomas per informarti ed educarti sull’impatto dell’industria della moda sul pianeta e sulle condizioni lavorative degli operai nelle fabbriche.

Bisogna cambiare la prospettiva e la mentalità.  Il modo in cui si sviluppa la moda ed i suoi prodotti, devono connettersi con le esigenze della società e dell’ambiente e lavorare con loro, non contro di loro.

Il ciclo della moda per il solo bene della moda deve finire. 

In un’intervista con Dezeen, Li Edelkoort, una delle più noti e influenti trend forecaster nella moda, ha dichiarato: “Sfortunatamente in questo disastro, non esiste una cura immediata. Dovremo raccogliere il residuo e reinventare tutto da zero una volta che il virus è sotto controllo. Ed è qui che spero in un sistema migliore, da attuare con maggiore rispetto del lavoro e delle condizioni umane. Alla fine, saremo costretti a fare ciò che avremmo dovuto fare già in primo luogo….Sembra che stiamo entrando in una “quarantena di consumo” in cui impareremo ad essere felici solo con un abito semplice, riscoprire i vecchi favoriti che già possediamo… Il virus stava anche mostrando come l’interruzione economica potrebbe avere benefici ambientali … Le recenti immagini dell’aria sopra la Cina hanno mostrato come due mesi senza produzione hanno ripulito il cielo e permesso alle persone di respirare di nuovo … Ciò significa che il virus mostrerà come il rallentamento e lo spegnimento possano produrre un ambiente migliore…”.

Ciò che prima era la normalità, adesso è stato messo in discussione. 

Le sfilate come le abbiamo sempre viste sembrano non avere più senso ormai. Non a caso infatti, Alessandro Michele di Gucci ha annunciato di abbandonare la solita programmazione annuale e di passare a soli due appuntamenti che uniscono tutti, uomini e donne. “Io e Marco Bizzarri, il nostro amministratore delegato, probabilmente non intendiamo più seguire un ritmo che era diventato troppo frenetico e impediva, alla fine, ai consumatori finali di apprezzare la qualità di un abito, di poterlo toccare, di riuscire ad apprezzarlo nei suoi aspetti artigianali, che dobbiamo preservare.”

In merito all’ordinario sistema di presentazione delle collezioni, il sistema moda sembra aver già messo in atto un cambiamento, dettato soprattutto dalle chiusure dovute al virus. Parigi, Londra e Milano sfileranno digitalmente. Il British Fashion Council ha annunciato che per i prossimi dodici mesi la London Fashion Week sarà presentata in una nuova piattaforma digitale attiva per tutti dal 12 giugno 2020 che riunirà le nuove collezioni donna e uomo in un unico format gender neutral. Anche rispettivamente Fédération de la Haute Couture et de la Mode e Camera Moda, hanno annuciato le sfilate maschili nel format digitale e per la prima volta, Parigi sarà prima di Milano.  

E se già il COVID sta dando una spinta alla necessità di un cambiamento repentino per quanto riguarda la velocità e produzione del sistema moda, ecco che prima ancora di uscire dal lockdown, arriva un altro evento globale pesante. L’uccisione di George Floyd, che ha preceduto anni di razzismo e ingiustizie, ha fatto innalzare proteste con l’obiettivo e la speranza di risolvere una volta per tutte questo problema della società. 

E l’industria della moda non ne è rimasta fuori. Accusata già negli anni di diversi episodi di razzismo, il settore della moda sembra continuare a fare errori nonostante negli ultimi mesi alcune aziende abbiano iniziato ad introdurre figure apposite che si occupano di inclusività. 

I brand di moda si sono uniti alle proteste del #blackouttuesday, postando l’ormai riconosciuto quadrato nero su Instagram.  Questa solidarietà è stata vista, specialmente dalle persone di colore direttamente colpite, come semplicemente un movimento al quale prendere parte per la propria immagine, un altro episodio astratto ma che a quali risultati porta? Molti infatti accusano le aziende di appoggiare campagne anti-razziste pensando che basti un post su Instagram, quando in realtà alla maggior parte delle organizzazioni aziendali manca la diversità. Che non è l’unico problema. Oltre che avere pochi o alcuni brand, nessuna presenza di personale di colore, black people, devono anche vedersela con altre situazioni di razzismo: stylist di colore a cui vengono consentiti in prestito capi limitati per i loro clienti, riviste accusate di disparità di stipendi fra bianchi e neri , campagne di influencer marketing con poca diversità, ed in generale  minori opporutnità di carriera e di business.  In un settore competitivo come quello della moda in cui è difficile entrare e trovare lavoro, tutto diventa ancora più difficile per le persone di colore.  Virgil Abloh, LV eOff- White e Olivier Rousteing di Balmain sono ancora gli unici direttori creativi di colore delle più prestigiose aziende di moda. 

Secondo un sondaggio di BoF del 2019, solo circa il 30% dei designer che presentavano alla London Fashion Week per la primavera / estate 2020 erano non bianchi, una cifra che si stima fosse leggermente superiore – 34% – alla settimana della moda di New York.

Già nel 2015, dei 260 spettacoli sul programma della fashion week di New York, solo tre con portata globale sono di designer afroamericani: Tracy Reese, Public School e Hood by Air.  Se includiamo brand più piccoli con un fatturato annuo inferiore a $ 1 milione, come Harbison, Pyer Moss e LaQuan Smith, salivano  a poco più del 2,7%.

La percentuale di designer afroamericani, membri del Council of Fashion Designers of America era quindi a 12 su 470. Nel 2014 gli studenti afroamericani delle scuole di moda come FIT, Parsons e Pratt erano rispettivamente l’8, il 4 e il 1,9% secondo il New York Times.

La soluzione sembra semplice eppure allora perchè risulta così complicata metterla in atto?

Assumete persone di colore, stylist, designer, buyer, manager, modelle, CEO…valorizzate il loro lavoro come quello di chiunque altro, pagatele equamente, promuovetele fino a ruoli manageriali, date loro le stesse possibilità, appoggiateli, incoraggiateli e motivateli, abbattete ogni disparità. 

Ieri il CFDA ha messo nero su bianco i cambiamenti previsti immediatamente, sperando che tutto il sistema moda possa iniziare ad agire:

“Il nostro settore è in sofferenza e non basta dire semplicemente che siamo solidali con coloro che sono discriminati. Dobbiamo fare qualcosa.

Il CFDA delinea le seguenti iniziative che verranno immediatamente intraprese dall’organizzazione per creare cambiamenti sistemici nel nostro settore:

Il CFDA creerà un programma di lavoro interno incaricato in particolare di collocare talenti neri in tutti i settori del settore della moda per aiutare a raggiungere un settore razzialmente equilibrato. Questo programma avrà il compito di identificare i creativi neri e associare questi individui a società che desiderano assumere.

Il CFDA creerà anche un programma di tutoraggio e un programma di tirocinio incentrato sul collocamento di studenti neri e neolaureati all’interno di aziende affermate nel settore della moda.

Il CFDA implementerà e metterà a disposizione dei nostri membri un programma di formazione sulla diversità e l’inclusione.

Daremo contributi immediati e intraprenderemo attività di raccolta fondi a sostegno di organizzazioni caritatevoli volte ad equalizzare il campo di gioco per la comunità nera come, ma non solo, il NAACP e la Campagna Zero – tra gli altri.

Esortiamo tutti i membri del CFDA a fare il punto della loro struttura aziendale per garantire che abbiano una forza lavoro equilibrata dal punto di vista razziale e sfidiamo il settore al dettaglio del settore della moda a garantire che il loro elenco di marchi e il loro assortimento di prodotti siano rappresentativi del Talento nero nel settore.”

Oltre a questi due macro temi fondamentali, questa pandemia ha insegnato anche altro al settore della moda ed in particolare ai lavoratori dagli stagisti alle figure senior: che bisogna avere un piano B ed essere flessibili. In tanti hanno perso il posto di lavoro e senza un piano di riserva che potrebbe essere un’attività da freelance ad esempio, si sono ritrovati a dover affrontare problemi economici di non poco conto. 

Quelli che hanno continuato a lavorare e fare business sono coloro che sono riusciti ad essere flessibili e adattati al cambiamento: Zara ha inviato i prodotti alle modelle da scattare da sole in casa per riuscire a continuare a postare le nuove collezioni, stylist hanno effettuato le loro consulenze tramite Zoom, fotografi si sono fatti inviare i prodotti a casa per scattare still life, buyer hanno acquistato tramite showroom digitali, agenzie pr hanno organizzato presentazioni online, e tutti i manager, creativi si sono ritrovati a discutere delle prossime collezioni, strategie ed iniziative su Zoom. 

Questo periodo ci ha anche insegnato un nuovo modo di lavorare, alcuni non lo hanno apprezzato, altri ci hanno messo un pò ad abituarsi ma ora lo preferiscono, e per alcuni è stato più produttivo. Lavorare da casa significa risparmiare infatti tempi morti come quelli del viaggio da lavoro verso casa e ci si è resi conto come tanti meeting possono essere video call senza perdere tempo a spostarsi dall’altro lato della città. 

Alla fine della storia, quello che spero il 2020 abbia insegnato a tutti fino ad ora è che non si può aspettare, il cambiamento deve avvenire subito. Seppure i temi emersi come conseguenza di questi eventi globali (sostenibilità e razzismo) non siano nuovi, quello che il 2020 dovrebbe insegnare è che bisogna agire e adesso. Basta a post su Instagram o comunicati stampa che non portano a nulla, andiamo nel concreto. E per tutte le falle nel sistema che usciranno nel futuro, non aspettiamo che arrivi una pandemia o che ci siano delle vittime e violenza affinchè si passi all’azione. 

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